Nella nostra società, l’obesità è un fenomeno che coinvolge sempre più anche i bambini. La classificazione di questa patologia in età evolutiva è più complessa rispetto all’età adulta, poiché l’infanzia e l’adolescenza sono caratterizzate da significative variazioni dal punto di vista fisiologico, relative soprattutto alla quantità e alla distribuzione del grasso corporeo, che rendono difficile impiegare un unico criterio per le diverse fasce d’età e per entrambi i sessi.
In generale, a prescindere dal periodo dello sviluppo, questa condizione può essere suddivisa in diverse tipologie: endogena, ossia dovuta a specifiche patologie organiche, esogena, in cui l’eccesso ponderale è riconducibile ad abitudini alimentari scorrette all’interno dell’ambiente di vita, e infine psicogena, in cui il cibo è utilizzato per far fronte ad un malessere interiore. In particolare, per bambini e adolescenti, la fame in eccesso può essere talvolta una difesa contro sentimenti e vissuti significativi, come l’ansia e la depressione. Il cibo e l’atto alimentare assumono un valore consolatorio al cospetto di emozioni negative intense, avviando così un circolo vizioso aggravato dall’impotenza avvertita rispetto al regolare la propria alimentazione.
Volgendo lo sguardo al contesto di vita, inoltre, l’offerta anticipata di cibo rispetto alla richiesta o la risposta di tipo alimentare ad ogni bisogno possono provocare passività, dipendenza e suscettibilità alle frustrazioni. Così facendo, il bambino potrebbe faticare nel riconoscere le proprie sensazioni e, nel tempo, tenderà a rispondere a queste utilizzando il cibo in modo indifferenziato. Risulterà quindi difficile distinguere tra l’aver fame e l’essere sazi, tra il bisogno di mangiare e altri stati di tensione.
Progressivamente può svilupparsi un «corpo-corazza», che si impone e viene esibito per catturare lo sguardo dell’altro. Dietro lo scudo del corpo obeso, infatti, vi può essere la necessità del bambino di attirare su di sé uno sguardo amorevole e attento dei genitori e degli adulti di riferimento. Il cibo può divenire la soluzione per esprimere angosce non elaborabili mentalmente e, al tempo stesso, per segnalare l’appello di essere visti per ciò che si è, al di là della forma, nella propria unicità. Come sottolinea la Dott.ssa Pamela Pace – Psicoanalista, Psicoterapeuta e Presidente dell’Associazione Pollicino – nel testo “La parola muta. La sofferenza del soggetto obeso” (Edizioni San Paolo, 2017): «Il corpo-grasso assume la funzione protettiva di una corazza difensiva e quindi di distanza rispetto a tale volere dell’Altro. Tuttavia, il troppo pieno che esso realizza ha un effetto anestetizzante rispetto alla turbolenza delle emozioni interne. Inoltre, il corpo che ingrassa può preoccupare mamma e papà e, dunque, prolungare la dipendenza, rimanendo nella garanzia della loro attenzione. Oppure, può rappresentare una modalità non simbolica, quindi inadeguata, di separarsi, trasgredendo, disubbidendo magari alle regole alimentari della famiglia».
È bene dunque, in una prospettiva preventiva, porre la giusta attenzione al cibo, ai suoi significati e al suo utilizzo. Prevenire è meglio che curare e in infanzia è un’operazione possibile!
In conclusione, riportiamo di seguito alcuni spunti e consigli:
· Abitare la tavola: mangiare tutti insieme, ricordando che l’atmosfera familiare durante i pasti contribuisce a fare della tavola quotidiana un buon incontro per i bambini, permette di condividere non solo piatti e pietanze, ma anche parole e affetti.
· Dare l’esempio: può risultare poco utile predicare una dieta sana, se gli adulti per primi indulgono troppo spesso in cibi non salutari, abbuffate sfrenate e così via. L’alimentazione si insegna e si trasmette anche con il buon esempio, ascoltando e rispettando comunque i gusti di ciascuno.
· Cucinare insieme: è un rituale che può aiutare a soddisfare le esigenze affettive oltre che l’appetito. Permette inoltre ai figli di sperimentare e scoprire i propri gusti.
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