Fin dai primi istanti di vita, l’alimentazione diviene un mezzo di comunicazione acquisendo un significato che va oltre il semplice consumo di “sostanze nutritive”. Questa primaria forma di comunicazione, non si basa solo su strutture linguistiche ma si organizza anche a partire dalle più profonde strutture affettive che alimentano e caratterizzano la relazione duale madre-bambino, e successivamente il rapporto con il padre e l’ambiente familiare.
Cibo e amore sono quindi intimamente interconnessi, infatti, l’alimentazione è in grado di unire due aspetti distinti ma collegati: il bisogno di nutrire la pancia e il desiderio di nutrire il cuore che si veicola attraverso voce, sguardo, calore e contatto corporeo.
A partire dal ruolo centrale rivestito dal cibo, la tavola, in quanto luogo simbolico, può trasformarsi in un “teatro” di protesta nel quale si può mostrare apertura o chiusura, accettando o rifiutando il cibo che proviene dall’esterno. È proprio in virtù dell’importante valore affettivo e relazionale che l’atto alimentare può “snaturarsi” più facilmente: il bambino può infatti rifiutare la pappa per esprimere emozioni, paure, fatiche evolutive e servirsi del corpo o di condotte alimentari “sregolate” per trasmettere alla mamma e al papà che c’è qualcosa che non va.
Il pediatra spesso, rappresenta il primo riferimento per la famiglia e ha il ruolo importante di individuare potenziali segnali di disagio; tuttavia, a fronte di una situazione di difficoltà, è bene che esso possa essere affiancato da professionisti specializzati nell’accogliere genitori preoccupati per i propri figli.
Nel riferirci a queste preoccupazioni è importante fare una differenziazione clinica tra disagio e disturbo alimentare.
I disagi alimentari come bizzarrie, selettività, inappetenza e rigurgiti frequenti rappresentano situazioni temporanee e limitate che si possono manifestare in fasi specifiche dello sviluppo e talvolta in concomitanza con eventi significativi come, ad esempio, la nascita di un fratellino o di una sorellina e l’ingresso nel contesto scolastico. L’assenza di gravità clinica e di problematiche in altre aree (come sonno, comportamento o evacuazione) non deve però portare i genitori e le altre figure di cura a trascurare o sottovalutare queste espressioni: si tratta di campanelli d’allarme, messaggi, come dicevamo, da accogliere e interrogare.
I disturbi alimentari come l’anoressia, la bulimia, l’iperfagia e l’obesità sono invece manifestazioni di un malessere più profondo e complesso. In questo caso, la sofferenza psicologica del bambino può infatti influenzare diverse aree della sua vita come la socializzazione, il sonno e la condotta, andando oltre il mero ambito alimentare.
All’interno di questo discorso, è utile sottolineare che l’approccio rigido e coercitivo nell’ambito alimentare, come l’esortazione a mangiare tutto o la pressione nel farlo rapidamente, può produrre nei bambini l’effetto opposto: una forma di resistenza caparbia o un’apparente regressione del comportamento.
È fondamentale chiarire che non esiste un rapporto causale diretto tra il comportamento alimentare di un bambino (che non mangia o mangia troppo) e le azioni dei genitori. Il bambino è anch’esso un soggetto che nell’opporsi o rifiutare il cibo sta in realtà cercando di fare qualcos’altro, ad esempio comprendere quale ruolo occupa nel desiderio e nel cuore dei genitori.
Risulta quindi essenziale sensibilizzare e aiutare i genitori a riconoscere questi segnali e non dimenticare che il cibo più nutriente per un bambino è l’ascolto e il riconoscimento della sua individualità, non è solo un corpo da sfamare! L’attenzione alla prevenzione, al cuore del progetto dell’Associazione, diventa dunque di grande importanza poiché consiste proprio nel prendersi cura di qualcosa in anticipo, per evitare di dover affrontare problematiche più complesse in seguito.
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